Ma in che mondo si vive? Questa domanda, purtroppo, capita di porcela troppe volte in questo periodo. Per esempio ieri, alla notizia letta sui giornali di un istituto comprensivo romano che proponeva la ripartizione degli alunni secondo la propria estrazione sociale, fortunatamente bloccato da una reazione dei dirigenti scolastici. Si tratta di un ritorno di idee e di forme chiaramente classiste, applicate alla scuola, che si pensava tramontate da tempo. Anche questo è un segno della fase che viviamo. Chi ha visto il bellissimo film di Ken Loahc “Sorry, we missed you” ha toccato con mano ciò che sta avvenendo nel mondo del lavoro attraverso una precarizzazione sempre più selvaggia, e di conseguenza con una crescita drammatica dell’insicurezza sociale che mina il futuro di tante famiglie e di giovani. Anche qui: ma in che mondo si vive? Non c’è solo un film, ci sono tanti studi che dimostrano la svalorizzazione del lavoro in termini di diritti e di salari, soprattutto è la realtà di tutti i giorni che ci parla di un disagio sociale profondo in aumento. In questo contesto, con un Governo bloccato dalle sue divisioni e una situazione politica ferma in attesa del voto delle elezioni emiliano romagnole, il Ministro Provenzano ha posto in una intervista il problema di una revisione delle politiche del lavoro rimettendo al centro il tema della dignità e della giustizia sociale per chi oggi è del tutto privi di tutele. Eppure c’è chi nel PD, nonostante i propositi di cambiamento annunciati, si arrocca in difesa di quel Jobs Act che doveva, fu detto, limitare la precarietà e invece l’ha fatta crescere. Per cui possiamo leggere che il capogruppo al Senato attacca il proprio Ministro. È il lascito di Renzi che continua a condizionare il PD nonostante Zingaretti.
Ancora un punto su cui porre la domanda “In che mondo si vive?” è quello del cambiamento climatico. Dalle immagini che possiamo vedere, e non solo dalle ricerche e dagli studi super più documentati, gli effetti del riscaldamento del pianeta possono essere devastanti e compromettere il futuro della Terra nel giro di pochi anni, qualche decennio al massimo. Eppure gli Stati, a cominciare dai più forti, resistono di fronte all’esigenza di fare i conti con questa prospettiva. Chi lo fa, come l’Unione Europea, mette un gruzzolo di risorse per inizia a fare politiche di contenimento delle emissioni. È bene ma è poco. Ma il problema di fondo è quello di cambiare il modello di sviluppo e gli stili di vita e di consumi che riguarda i Paesi più ricchi, ma anche quelli più arretrati che assumono lo stesso modello consumistico di crescita. È un problema di cultura e di messaggio prima ancora che di politiche concrete. Certo queste sono essenziali, ma senza un cambiamento della mentalità e degli orizzonti da indicare per una qualità della vita accettabile per tutti è assai difficile pensare di vincere la sfida contro la natura che muta per colpa delle nostre pretese. Eppure sono ancora pochi quelli che si pongono il problema.
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