Purtroppo non ce l’abbiamo fatta. Il ballottaggio l’ha vinto Michele Conti contro Andrea Serfogli con il 52% dei voti. Sapevamo che era difficile, sentivamo il clima di un’onda montante di destra che si era già chiaramente manifestato il 4 marzo e poi il 10 giugno. Per questo abbiamo fatto appello a tutti coloro, progressisti e di sinistra, che si sentivano preoccupati, come noi, dalla possibile vittoria della destra leghista. È una risposta c’è stata: Serfogli è passato dai 13.338 voti del primo turno ai 18.968 del ballottaggio. E’ evidente, anche andando a vedere la distribuzione sui seggi, che gran parte di questi aumento di voti arriva dal bacino elettorale di sinistra. Mentre è chiaro che gran parte degli elettori, se non tutti, del M5S e di Latrofa hanno votato per Conti.
Con il Governo Salvimaio in piena luna di miele con la maggioranza del Paese era prevedibile un esito simile. Tuttavia ciò non elimina il problema: abbiamo perso e dobbiamo capire perché. Sul piano politico generale questa domanda porta direttamente alle politiche seguite dal centrosinistra negli ultimi cinque anni. E, in una certa misura, anche più in là. Il dato principale, a mio parere, sta nel fatto che mentre la crisi allargava il campo del malessere e del disagio sociale, dal Governo e da una guida politica sempre più personalizzata arrivava il messaggio che in fondo le cose andavano bene, o almeno benino. Era il refrain delle riforme che cambiavano il Paese. Però in peggio, come dimostra l’aumento strutturale della precarietà del lavoro, dell’insicurezza sociale o il malessere sulla scuola, oppure i tagli alla sanità e agli Enti Locali. Allora il malessere, sempre più preso dal rancore, ha trovato altre vie di sfogo ed è diventato preda della demagogia e del populismo. Ciò anche perché nell’ultimo decennio è stato fatto di tutto per distruggere il ruolo fondamentale dell’intermediazione politica e sociale svolto dai partiti e dai sindacati, e si è aperto un vuoto nel quale i singoli cittadini si ritrovano ad affrontare le difficoltà in solitudine. Spesso solo con la compagnia della TV o dei social media. Ora la sinistra ha il compito di capire e di ripartire. Ci vuole un pensiero ed un progetto nuovo, e con esso un nuovo gruppo dirigente. Pensare che basti rimettere insieme i cocci, come dice qualcuno, non porta da nessuna parte. Non è sommando diversi pezzi di sinistra in nome dell’unità che si risponde alle ragioni della sconfitta. Serve di più. E soprattutto serve la progettazione di un veicolo politico, un soggetto? un partito?, capace di stare sul territorio e di promuovere e organizzare l’incontro e la partecipazione dei cittadini. La pratica dei leader assoluti, dei capi con i loro staff, del protagonismo e della visibilità individuale, non fa per noi. Alla sinistra serve un corpo pensante collettivo.
Però qualche riflessione va fatta anche sul piano locale, se in una realtà territoriale contenuta come Pisa si manifesta un problema di rapporto e di relazione con i cittadini, in particolare nei quartieri popolari, e anche con il mondo delle rappresentanze economiche, sociali e culturali. Il tema del malessere e del malcontento che attraversa molte parti della nostra società lo abbiamo posto diversi mesi fa, quando abbiamo detto che affrontare le elezioni con una proposta caratterizzata dalla continuità era un errore, perché a quel disagio dovevamo dare una risposta di novità e di cambiamento. Non era il problema del nome. Non era la persona di Andrea Serfogli il punto critico. Anzi, Andrea ha fatto di più di quello che poteva. Ma era il discorso politico che richiedeva una valutazione più attenta e una apertura più grande. Forse non sarebbe bastato a bloccare la marea montante, ma certamente avremmo avuto qualche carta in più da giocare.