Ieri ho seguito tutto il dibattito nella Direzione nazionale del PD. Avevo in mente di scrivere un commento a caldo, ma alla fine mi è passata la voglia perché avvertivo una sensazione di delusione, di inadeguatezza rispetto alle sfide che abbiamo davanti. Prima fra tutte quella di recuperare credibilità sul piano della rappresentanza degli interessi dei più deboli, dei giovani e dei redditi bassi, per contrastare e battere il populismo alimentato da Grillo e dalla destra. Le domande principali che mi sono posto per tutta la serata è la seguente: come viene letta e percepita al di fuori degli addetti alla politica la discussione e le decisioni assunte dal PD? Diamo l’impressione di parlare dei problemi del Paese o di quelli nostri, di una forza politica e di un gruppo dirigente impegnati a regolare i conti sul potere e sui rapporti di forza interni? Credo che passi questa seconda lettura. Anche perché è nettamente maggioritaria, soprattutto fra i giovani, l’idea che noi, il PD, siamo il partito del sistema. E in effetti lo siamo. Anzi ci siamo sforzati negli ultimi anni di dare proprio questa idea, di farne un punto di attrazione del consenso. Ma la crisi economica e sociale ha prodotto altro: malessere, insicurezza, rabbia, risentimento, mentre noi raccontavamo l’Italia delle eccellenze e di Marchionne. Ed ecco le sconfitte elettorali delle amministrative e del referendum, con la conseguente crescita della demagogia populista. Ora invece di ragionare sul perché di quelle sconfitte, sulle motivazioni che hanno portato qualche milione di elettori del centrosinistra a voltare le spalle al PD, ci si limita a prenderne atto e si pensa di risolvere i problemi con il rilancio sulla leadership. Perché questa è la decisione assunta ieri: fare il congresso in tempi rapidi per rimettere in sella Renzi prima delle prossime elezioni amministrative e dell’eventuale referendum sui quesiti promossi dalla CGIL. Ma quel mondo di persone che ci considera l’espressione politica primaria di un sistema che non riesce a dare risposte ai suoi problemi cosa penserà? Che ci occupiamo di loro? Oppure di noi, del ceto politico, che cadrà ancora di più nella trappola dell’antipolitica e del qualunquismo di Salvini o dei Cinque stelle?
Penso, per chiarezza, che la decisione di fare il congresso sia sacrosanta. Anzi, il congresso, già previsto entro la fine del 2017, è di fatto iniziato il 5 dicembre, con la sconfitta referendaria e le dimissioni da premier di Matteo Renzi. Il punto è come, su quale analisi della società italiana e con quali contenuti di proposta per il Paese. Il voto del 4 dicembre ha posto il tema della necessità di una svolta profonda nelle politiche da portare avanti, soprattutto per il centrosinistra. Per fare questo bisogna mettere al primo posto il confronto, la ricerca, l’approfondimento e non la conta. In questo senso la proposta di Andrea Orlando di fare subito una conferenza di carattere programmatico e poi il percorso congressuale, con candidati e primarie, mi è parsa la più giusta. Di buon senso. Invece, la maggioranza, ha scelto di accelerare, di avviare al più presto l’iter congressuale per arrivare alle primarie in due mesi o poco più. La parola ai gazebo, alle schede e non alla discussione, al confronto sui candidati e non fra le idee, cercando – se possibile – una valutazione comune. È un percorso che accentua le spaccature: si fa appello all’unità, ma si prende la strada della divisione. Forse per qualcuno è quello che si vuole o che si auspica, come suggerisce da tempo Il Foglio, giornale vicino e amico del “renzismo”. Tuttavia è evidente che con questa scelta il tema della scissione si consolida. Ma non tanto, o non solo, per ciò che riguarda una parte del gruppo dirigente, seppure di minoranza, ma soprattutto per quelle migliaia di iscritti e centinaia di migliaia di elettori che la scissione l’hanno annunciata e avviata nelle regionali del 2015, nelle amministrative del 2016 e nel referendum del 4 dicembre.
Come poi si possa recuperare consenso tra i giovani che in grandissima parte votano il M5S è un mistero. In altri Paesi la novità del voto giovanile è stata interpretata da esponenti di sinistra con programmi più radicali, di lotta aperta alle diseguaglianze, come Sanders in Usa, Corbyn in Gran Bretagna, Hamon in Francia. Cioè con una politica e un profilo non subalterno al sistema economico e finanziario. Mentre da noi, i pensatori a cui si ispira la maggioranza del PD, si apprestano a dire che quelle sono politiche minoritarie e che l’esempio da seguire è Macron, perché unisce il centro moderato e offre alla sinistra la sponda per battere la destra lepenista. Che importa se siamo al primo turno e se in campo c’è anche un candidato del partito socialista. Noi comunque abbiamo aderito al PSE… e abbiamo la coscienza a posto…