Sono passati venticinque anni dalla tragica alluvione del 19 giugno del 1996. Un evento allora definito “eccezionale” si manifestò sulle Apuane, sui territori dei Comuni di Stazzema e Vergemoli, con effetti distruttivi sui due versanti del Monte Forato; quello dell’Alta Versilia e quello della Garfagnana. Fu una delle prime volte che venne usata la definizione “bomba d’acqua”. I paesi di Cardoso e di Fornovolasco travolti da un’onda di acqua, pietre, massi e castagni sradicati dal terreno, subirono a una devastazione enorme, insieme a tutte le infrastrutture di collegamento. Tredici furono le vittime di quella catastrofe, alle quali si aggiunse un tecnico della Regione impegnato nelle ricognizioni sulla montagna. È indubbiamente giusto ricordare oggi quegli eventi e insieme l’opera di ricostruzione e di messa in sicurezza portata a compimento in quattro anni sotto la guida della Regione Toscana.
La memoria è importante, ma è soprattutto utile e costruttiva se teniamo di conto degli ammonimenti e degli insegnamenti che tali vicende ci trasmettono. Allora la prima considerazione che bisogna fare riguarda proprio il tema della prevenzione, che significa avere cura del territorio, sviluppare la manutenzione ma evitare le forzature, le trasformazioni improprie, l’eccesso di consumo del suolo. Bisogna avere rispetto per la montagna come per la pianura e capire che il territorio è una risorsa se è preservato, altrimenti prima o poi diventa un problema per la sostenibilità dello sviluppo. Ciò ha un valore ancora più rilevante alla luce degli effetti prodotti dal cambiamento climatico. Oggi siamo di fronte ad un allarme che mette in discussione il futuro del pianeta e ragionare in termini di crescita, di mobilità e di infrastrutture, di sfruttamento delle risorse naturali, come venti o trent’anni fa è assurdo e irresponsabile. Semmai dovremmo pensare ad un recupero di attività economiche nelle zone montane, mirate alla valorizzazione della natura, anche in funzione di una domanda turistica specifica, legata ai valori ambientali. La seconda considerazione da fare sugli eventi di venticinque anni fa riguarda il lavoro di uscita dall’emergenza che fu definito come “modello Versilia”.
Per la prima volta si passava da una gestione della Protezione Civile centralizzata a livello statale ad un affidamento alla Regione del compito, delle competenze e della responsabilità di gestire la situazione, sia sul piano degli aiuti alle famiglie e alle imprese alluvionate e soprattutto sul piano della pianificazione e realizzazione degli interventi per superare l’emergenza e ricostruire in sicurezza. Erano gli albori di una lunga fase di discussione sul federalismo regionale che purtroppo, per tante ragioni, non ha trovato le risposte più adatte. Tuttavia quella scelta fu molto positiva. La Regione Toscana accettò la sfida e riuscì a sviluppare un lavoro di costante collaborazione istituzionale a tutti i livelli, in primo luogo con i Comuni e con i comitati degli alluvionati, concretizzando lo spirito di solidarietà in un rapporto di coinvolgimento e di responsabilizzazione che impegnò tutti i soggetti interessati. Teniamo di conto che oltre alla distruzione nei Comuni montani l’alluvione aveva prodotto gravi danni anche a Serravezza, Pietrasanta, Forte dei Marmi e Montignoso. Nel complesso, nell’opera di ricostruzione, in quattro anni, furono investiti circa 800 miliardi di lire, sulla base di un numero considerevole di interventi articolati in decine e decine di appalti; dalla riconfigurazione dell’alveo del fiume, alle opere di messa in sicurezza e di stabilizzazione dei versanti franosi, alle briglie di protezione dalla caduta di materiali solidi, alla ricostruzione della viabilità scomparsa, al rifacimento dei ponti (compreso quello della ferrovia), fino alla ricostruzione delle case distrutte in un contesto idrogeologico e urbano sicuro.
Tantissimi cantieri in uno spazio ristretto e con tempi di realizzazione accelerati, e grazie ad un protocollo condiviso tra sindacati, imprese e istituzioni, nessun incidente grave sul lavoro. La terza considerazione che voglio fare, e credo la più significativa, è che quel modello funzionò perché alla base aveva uno spirito democratico fortemente legato all’idea della partecipazione. Non solo nel rapporto con gli Enti e i comitati, ma anche con i cittadini che si rivolgevano spesso all’Ufficio del commissario messo in piedi dalla Regione a Pietrasanta. Lo spirito che si affermò non era quello delle chiusure localistiche o delle competizioni municipali o territoriali che vediamo prevalere nei tempi odierni, ma era quello di una visione fondata sul massimo di collaborazione e di responsabilità che permise a tutti di sentirsi parte di un impegno e di avere fiducia in quel progetto. Se c’è una lezione da riprendere da quel ricordo forse è proprio questa, in tempi ormai dominati da una personalizzazione nella politica e nei ruoli istituzionali che non promette niente di buono. Io continuo a chiamarla democrazia, così come è identificata da molti articoli della nostra Costituzione che parlano di decentramento e di partecipazione.
Paolo Fontanelli