La notizia di queste ore è l’annuncio di Matteo Renzi di uscire dal PD per dare vita ad una sua forza politica. La base è la formazione di gruppi parlamentari autonomi, contando sull’adesione di una parte dei deputati e senatori che lui aveva inserito nelle liste del PD. Ciò non avviene su presupposti di divisione né di contrasto sui contenuti politici, tanto che ha rivendicato a sé il merito della nascita del nuovo Governo imperniato sull’alleanza con il M5S. Ma avviene, come hanno sottolineato tutti gli osservatori politici, sulla base di una pura operazione di potere: prima si ottengono da Zingaretti un po’ di ministri e sottosegretari e poi si mette su un partito con l’obbiettivo di condizionare il Governo e contrattare posizioni. Ma al centro di tutto c’è lui, il suo ego, pari o forse superiore, in questi tempi di eccesso della personalizzazione, a quello di Salvini. Cosa che non gli consente assolutamente di pensare al proprio ruolo in una dimensione collegiale.
Per quanto mi riguarda non sono per niente sorpreso. È dal 2013 che ogni volta che mi è stato chiesto un giudizio su Renzi ho sempre detto che il perno del suo pensiero è che “il mondo comincia e finisce con lui”, e per questo non mi hanno mai convinto i suoi “propositi riformatori”. Peraltro assai spesso celati sotto una buona dose di ipocrisia, come quando attacca le correnti; lui, che con la peggiore pratica correntizia, ha demolito da segretario gli spazi di agibilità politica per le minoranze. Ma lasciamo perdere, ormai la cosa non mi riguarda più da un bel po’ di tempo. Quello che invece mi interessa di dire è che i problemi del PD, e della sinistra, non cambiano e non si risolvono con l’uscita di Renzi. Forse vanno via alcune ambiguità, ma il tema di come recuperare la credibilità perduta in questi anni, rappresentata da alcuni milioni di elettori che si sono sentiti traditi dalle politiche economiche, sociali e sul lavoro, portate avanti dai governi Monti, Renzi e Gentiloni (tralascio Letta perché è stato sereno per poco), resta del tutto aperto. E oggi è reso ancora più difficile dall’aria che tira, fatta di intolleranza, odi e risentimenti, che rendono complicato l’ascolto e il confronto sui temi di fondo. Non è facile ritrovare la fiducia di chi si è sentito tradito o abbandonato, come non è facile conquistare consensi nuovi per chi nella percezione pubblica viene visto come ancorato al “vecchio sistema dei privilegi”.
È evidente che da parte di Nicola Zingaretti c’è un impegno molto forte per superare questi problemi, il PD resta una forza fondamentale per contrastare la destra nazional-populista e per costruire una reale alternativa politica. Tuttavia penso che questo non sia sufficiente. Per recuperare e dare una risposta al diffuso malessere sociale occorre innanzitutto una svolta chiara e percepibile sul piano dei contenuti e del messaggio politico, e poi anche una proposta nuova sul lato della rappresentanza. Come questo si possa fare, in un contesto dominato dalla preoccupazione di tenere in piedi e di far durare la maggioranza e il Governo appena nati, è tutto da vedere. Quel che è certo è che non si tratta di una passeggiata.