Scrivo mentre si stanno svolgendo le dichiarazioni di voto sulla proposta di legge Richetti sui vitalizi. Com’era facile prevedere il PD, con questa proposta, ha apparecchiato la tavola per il M5S, perché sul piano della rincorsa alla demagogia populista e antipolitica dei grillini, non c’è partita. E anche molti deputati del PD si sono trovati in grande imbarazzo. In primo luogo perché su questo terreno prende piede l’antiparlamentarismo e si costruiscono le condizioni per un serio ridimensionamento della autonomia delle istituzioni, e poi perché introducendo una norma che colpisce il principio della “non retroattività” e afferma il ricalcolo dei vitalizi in essere, si apre la strada alla possibilità di un intervento su tutte le pensioni calcolate con il sistema contributivo. Potenzialmente quindici milioni di pensionati italiani. Su quest’ultimo punto è stato particolarmente efficace il “sofferto” intervento di Cesare Damiano. Tuttavia la linea del PD è stata quella di difendere un impianto assai discutibile e pericoloso. Anche da parte del gruppo di Articolo Uno-Mdp ci sono stati interventi critici, rigorosi sul piano del merito e propositivi negli emendamenti, ma attenti a non concedere nulla alle varie e diverse demagogie che si sono confrontare in aula. Anche per questo abbiamo scelto una posizione di astensione nel voto finale alla legge, per non dare spazio, mentre si esprimeva un netto dissenso dalla impostazione di quel testo, alle posizioni della demagogia della destra, del tutto speculare a quella del M5S nell’azione di discredito delle nostre istituzioni. Non abbiamo partecipato al teatrino della propaganda a spese della credibilità delle istituzioni.
Ma in fondo il tema politico di cui si discute di più a sinistra, giustamente, riguarda la situazione di difficoltà e di stallo in cui sembra caduto, improvvisamente, il progetto avviato nelle scorse settimane e in particolare con la manifestazione del 1 luglio a Roma con i discorsi di Bersani e Pisapia. Quello di costruire un nuovo soggetto di sinistra aperto, inclusivo e capace di proporre una linea alternativa al PD di Renzi e in grado di indicare al Paese una proposta per superare la crisi economica e sociale rilanciando politiche e azioni di sviluppo, equità e lotta alle diseguaglianze. I titoli dei giornali di stamani mettono in evidenza le incomprensioni che hanno consigliato a Pisapia e Speranza il rinvio dell’incontro previsto e una pausa di riflessione. La versione della stampa racconta di una insofferenza di Pisapia per le critiche o le perplessità manifestate da esponenti di Mdp sul significato di alcune sue uscite, e in tal senso è stato enfatizzato l’episodio dell’abbraccio alla Boschi e la dichiarazione che in quella occasione “si sentiva a casa”. Penso che la risposta data da Speranza sia stata giusta e corretta: il problema non è negli incontri o negli abbracci ma, semmai, nella senso del messaggio politico che passa e nell’esigenza di evitare fraintendimenti e scarsa chiarezza sul progetto che intendiamo portare avanti. La nostra proposta non può che essere in netta discontinuità e in competizione con il PD e le scelte politiche portate avanti e ribadite nel loro congresso perché su quelle basi è impossibile rimettere in piedi un centrosinistra credibile. Per questo parliamo di un nuovo centrosinistra. Allora che senso ha dire oggi che è comunque necessario pensare, se fosse possibile, ad una coalizione con il PD? Evidentemente ci sono ancora delle cose da chiarire con Campo Progressista e forse è necessario individuare bene il luogo e le regole con cui si organizza il confronto e si decidono le posizioni. Comprese le forme partecipative che favoriscono un percorso di coinvolgimento e di responsabilizzazione che valga per tutti. Ma il punto di fondo, a mio parere, è quello dell’analisi della situazione sociale e politica, per capire meglio a chi vogliamo parlare. Ciò significa fare i conti con i processi di cambiamento negli orientamenti elettorali che sono emersi negli ultimi anni. Il dato più importante è senza dubbio la crescita dell’area del non voto, che ha penalizzato non poco il centrosinistra nelle elezioni amministrative dell’anno scorso e di quest’anno. A fronte di questa tendenza c’è stata, invece, una forte ripresa di partecipazione al voto nei referendum sulle trivelle (nel quale ci fu un appello esplicito all’astensione) e su quello costituzionale (il 4 dicembre c’è stato un ritorno al voto assai significativo). Tutto questo ci dice che una parte molto consistente di elettori di sinistra, che votavano le forze di centrosinistra, non si riconosce più nel PD e in questo campo, e delusa ha scelto di stare a casa nelle scadenze politiche, ma è tornata a votare quando poteva esprimere un voto contro che conteneva anche una domanda di cambiamento. Perché questo è il significato del NO il 4 dicembre. Se questa analisi è fondata, è evidente che la priorità non è quella di pensare di competere con il PD sulla sua area elettorale, ma quella di offrire una proposta chiara, radicale nei contenuti e nel messaggio, a quell’area del non voto che esprime malessere ma anche voglia di cambiare. In sostanza una domanda di sinistra che aspetta una offerta accettabile e possibilmente forte e unificante. Paradossalmente, ma non tanto, dare una risposta a questa esigenza vuol dire ricostruire le basi per un consenso largo e vincente al centrosinistra, qualora si riesca a rimetterlo in piedi con una impostazione politica e programmatica del tutto nuova. E comunque per evitare, in un sistema proporzionale, una deriva centrista condizionata dalla destra, è indispensabile avere in Parlamento una consistente presenza di sinistra, rappresentativa di una campo di valori e di interessi coerentemente contrastanti con le politiche neoliberiste portate avanti negli ultimi decenni.
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