Non è facile fare il punto su una situazione politica, italiana e internazionale, così confusa, dominata da una pandemia che non indietreggia e agisce pesantemente sugli istinti di difesa individualistici, e viene utilizzata irresponsabilmente nella lotta politica con il proposito di lucrare consensi calpestando quel minimo di spirito solidaristico che sarebbe necessario in una fase di grave crisi come quella che stiano vivendo. Infatti, come hanno notato in molti, il clima che si respira nel Paese è notevolmente diverso da quello del lockdown della scorsa primavera. Tra l’altro con aspetti che rasentano la paranoia, e sui quali primeggiano gli esponenti della Lega e della destra insieme a molti protagonisti del sistema mediatico, in Tv come sui giornali. Sicuramente nei provvedimenti presi dal Governo a più riprese nelle ultime settimane ci sono anche diversi limiti e sottovalutazioni, ma è assurdo che da un lato si affermi che un nuovo lockdown sarebbe il male peggiore e va evitato in ogni modo, mentre dall’altro si mettano in discussione tutte le misure che cercano di scongiurare questo possibile esito. È come se con il virus del Covid si sia diffusa una abbondante dose di idrofobia nella società italiana, una sorta di malattia della rabbia. Sui social in particolare.
Tutto ciò rende complicata anche la lettura delle vicende politiche e delle tendenze che si possono ricavare dai comportamenti sociali. Pensiamo agli orientamenti elettorali che si possono percepire anche nelle ultime elezioni regionali. Una parte consistente degli strati sociali più deboli come gli operai o i lavoratori dipendenti e autonomi a basso reddito, o anche senza lavoro, ha votato per la Lega di Salvini, ignorando tranquillamente i reali contenuti delle politiche economiche e fiscali da lui sostenute che sono a tutto vantaggio della rendita e dei redditi più alti. Non è un caso che anche i queste ore Salvini stia provando, sfruttando il discorso sull’emergenza, a riproporre scandalosi condoni sul piano fiscale e edilizio. Oppure pensiamo all’incredibile conflitto permanete alimentato dalle Regioni nei confronti del Governo; quando cavalcando una logica da corporazione istituzionale e quando sostenendo la pretesa e la legittimità di una sorta di sovranismo regionale. Il tutto contrassegnato da un protagonismo esagerato e squalificante di molti, cosiddetti, “governatori”.
Oggi, giustamente, nell’opinione pubblica si va facendo strada l’idea che vada rivisto profondamente il titolo V della Costituzione, ritornando ad una impostazione più consona al concetto di autonomia regionale scritto nell’articolo cinque. Anche perché, va detto chiaramente, il regionalismo praticato negli ultimi quindici anni ha tradito la motivazione di fondo che stava alla base della riforma del 2001. L’obbiettivo era quello di provare a costruire un federalismo cooperativo fondato sul binomio autonomia e responsabilità, ma purtroppo il tema della responsabilità non ha trovato le risposte e le volontà che richiedeva in molti campi, compreso quello della sanità, e come abbiamo visto anche nella vicenda della pandemia quando ci sono problemi scatta lo scaricabarile. Qualcuno, con qualche ragione, ha sottolineato la marcata inadeguatezza delle rappresentanze politiche che si sono affermate negli ultimi anni, in concomitanza con la crisi dei partiti e la personalizzazione della politica. È il segno dei tempi, viene da dire. Tuttavia la questione di una revisione delle competenze e del funzionamento dei livelli istituzionali si rivela sempre più necessaria.
Per quanto riguarda la situazione politica resta alto il tasso di polemica e di contrapposizione fra maggioranza e opposizione, nonostante i richiami del Presidente Mattarella verso l’esigenza di una maggiore coesione del Paese per affrontare la nuova ondata della pandemia. È evidente che di fronte ad una emergenza sanitaria come quella attuale sarebbe “normale” un atteggiamento della politica volto alla convergenza e non alla divisione. Ma lo sviluppo di questa impostazione non può certamente essere quello che una maggiore unità passa attraverso l’affossamento dell’attuale Governo, come auspicano una serie di poteri forti del Paese, e uno stravolgimento del quadro politico-parlamentare. In questo contesto il tentativo di dialogo promosso da Zingaretti e Berlusconi, basato sui richiami del Capo dello Stato, evidenzia una esigenza ma difficilmente può risolverla. E in ogni modo non è in grado di promuovere un significativo movimento d’opinione. Peraltro rischia di dare spazio politico a chi, nella maggioranza, pensa al recupero e al ritorno di un ruolo del centrismo nell’assetto politico italiano.
Penso che il problema di fondo per la sinistra sia ancora di più quello di provare a dare una prospettiva politica all’attuale maggioranza, basata su un progetto di rinnovamento economico e ambientale, socialmente sostenibile, che sappia proporsi in modo credibile alle prossime elezioni politiche. Pensare di rimandare tutto a dopo la scadenza della elezione del Presidente della Repubblica del 2023, ammesso che ci si arrivi, con l’idea che la destra ci arriverà indebolita, è un calcolo miope e perdente. Ovviamente un progetto di questo genere richiede una svolta politica, basata sulla scelta e sulla volontà di aprire una fase nuova nel discorso della sinistra. Ma finora, purtroppo, non se ne vedono le tracce.