Ci stiamo avvicinando rapidamente alla fine dell’estate, con al centro dell’attenzione sempre il problema della pandemia. Il numero delle vaccinazioni è in crescita ma non basta per arrivare ad una situazione tranquillizzante. La variante Delta ha reso il quadro più difficile del previsto e bisogna anche dire che le resistenze dei no-vax, troppo amplificate dai media, hanno rallentato l’azione di contrasto al COVID. Ma nel complesso l’impressione è che siamo sulla strada giusta, nonostante gli spropositi di Salvini e della Meloni. L’apertura del nuovo anno scolastico con gli alunni nelle classi sarà un passaggio importante, non solo per verificare la tenuta rispetto alla pandemia ma anche per riaprire i rubinetti della socialità che sono rimasti chiusi a lungo, mettendo in evidenza una preoccupante fragilità fra le giovani generazioni. Inoltre dovremo verificare, a fronte delle ottimistiche previsioni sul piano della ripresa economica, la reale profondità della crisi sociale che si è accentuata con la pandemia. Tutti gli indicatori, le indagini e le ricerche che vengono resi pubblici parlano di un significativo aumento delle diseguaglianze sul piano economico e sociale e di una sensibile crescita delle aree di povertà.
Tuttavia a questa denuncia non seguono indicazioni e fatti mirati all’obbiettivo di cambiare il corso delle cose, o almeno ad attenuare i fattori di disagio sociale che certamente non costituiscono un punto di forza per il rilancio del Paese. Indubbiamente c’è anche qualcuno che lo pensa, che crede cioè nell’idea che la competizione sociale selvaggia, che seleziona i più forti e capaci, sia la strada da perseguire per la crescita. Poi la ricchezza raggiunta troverà il modo di dare qualcosa anche a chi è rimasto indietro. Non è un concetto nuovo: è esattamente quello che è avvenuto con le politiche neoliberiste, guidate dal capitalismo finanziario, dagli anni ottanta in poi. E i risultati si sono visti, a partire dalla crisi del 2008, con un processo di aggravamento profondo degli squilibri sociali, delle iniquità, della riduzione dei diritti nel mondo del lavoro. Eppure, nei grandi convegni dei “padroni del vapore” o negli editoriali dei loro giornali non mancano i richiami alla esigenza di ricostruire quel clima di fiducia nel Paese che è necessario per supportare la ripresa dei consumi e degli investimenti.
Evitano però, accuratamente, di ragionare sui motivi che hanno provocato drasticamente la caduta di fiducia e hanno invece favorito la crescita quel risentimento sociale che ha alimentato il populismo. Lo evitano perché questa situazione è il prodotto delle loro scelte, sempre mosse dal proposito di contrastare la sinistra e ogni qualsivoglia politica di redistribuzione dei redditi, anche a costo di far saltare i cardini principali della democrazia rappresentativa. È ciò che in realtà rischia di avvenire oggi sul piano sostanziale prima ancora che formale. La personalizzazione della politica ha preso il sopravvento sull’esistenza dei partiti in quanto soggetti collettivi di rappresentanza, il Parlamento è svuotato di fatto nella sua funzione di sede del confronto e della decisione legislativa, la percezione e l’orientamento dei processi decisionali si va progressivamente spostando sulla soluzione del salvatore, dell’uomo forte, decisore e mediatore unico.
Infatti ecco che si comincia non solo a teorizzare ma ad auspicare apertamente una evoluzione presidenzialista per il sistema italiano. Detto questo non voglio dire che questa sia la politica di Mario Draghi, non lo so, non penso, ma la discussione sul suo ruolo futuro, che sia quello di Presidente della Repubblica o di Premier che va oltre le elezioni politiche a prescindere dagli schieramenti politici, allude chiaramente ad una evoluzione delle istituzioni in senso presidenziale. Credo che di questo si dovrebbe discutere seriamente, soprattutto a sinistra, evitando di rimanere totalmente imbrigliati nella tattica politica dominata dalle preoccupazioni di tipo elettorale. Altrimenti tante parole e tanti richiami ai valori della Costituzione, che molto spesso sentiamo negli interventi di qualificati esponenti nazionali e regionali rischiano di assumere il sapore dell’inutilità.
Tra pochi giorni si terranno le elezioni amministrative in molti Comuni italiani. Si vota nelle più grandi città come Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna. In una Regione e in un collegio parlamentare. Il centrosinistra è arrivato a questo appuntamento riuscendo a mettere insieme coalizioni alternative alla destra più o meno unitarie. In alcuni casi con una intesa con il M5S in altri no. Può darsi, speriamo, che il centrosinistra porti a casa un risultato positivo, vincendo nelle città più importanti. Sarebbe una bella boccata d’ossigeno, soprattutto guardando alla scadenza delle elezioni politiche e ai sondaggi decisamente favorevoli alla destra. Ma rimane comunque, tutto intero, il problema di un PD che non recupera la credibilità perduta e di una sinistra frammentata e dispersa che non sa trovare la via per provare a ricomporre le energie e recuperare significative quote di elettori che si sono rifugiati nel non voto. Di un centrosinistra che nel complesso non riesce a farsi interlocutore delle generazioni più giovani attraverso temi, per loro decisivi e vitali, come quello del cambiamento climatico e della transizione ecologica dello sviluppo. Che significa anche governare la questione sociale. Ci sarà lo spazio per discuterne?