I risultati dei ballottaggi sono chiari: come ha titolato l’Avvenire si è trattato di un “Cappottino rosso”, il centrosinistra ha vinto in tutte le grandi città tranne Trieste. Per Salvini e Meloni è arrivata una sonora sconfitta, di cui ancora non si capacitano. Anche per il M5S si profila una situazione di declino. Il vincitore principale è indubbiamente Enrico Letta, che ha saputo rilanciare le alleanze in forma molto aperta, costruendo anche le condizioni di una collaborazione con i Cinque stelle. Però è evidente che si tratta di una vittoria in arretramento, a causa della grande crescita dell’astensionismo, che mantiene interamente aperto il problema del recupero di credibilità, per il PD, la sinistra e il centrosinistra, nelle zone più popolari delle città. La questione cosiddetta delle periferie. E sul piano sociale del consenso in ampi settori del mondo del lavoro e dei più deboli. In quell’area cioè, dove il malessere sociale, determinato da un peggioramento delle condizioni di vita ha alimentato, dal 2013 in poi, il populismo sia del M5S che della Lega e della destra. Peraltro ben sostenuto da un sistema mediatico che ha fatto dell’antipolitica uno dei temi principali su cui costruire l’audience.
Ecco, per tenere i piedi ben piantati in terra, è bene evitare di cadere nell’idea che l’Italia, sul piano politico, ha svoltato. Sicuramente la demagogia populista ha perso attrazione, ma probabilmente l’enorme crescita dell’area del non voto testimonia di una domanda di cambiamento tutt’ora delusa, che non trova sbocchi convincenti. Per questo penso che resti pienamente valido ciò che ho scritto sul post precedente, ragionando sugli insegnamenti del voto amministrativo. Leggo che i risultati delle città hanno fatto esultare alcuni sindaci, come quello di Firenze per esempio, che attribuiscono alla “categoria” una sorta di merito specifico. In realtà, invece, sarebbe consigliabile una riflessione sul dato delle astensioni. Un tempo si diceva che i sindaci e i Comuni sono l’istituzione più vicina ai cittadini, e per questo più sentita. Adesso, con un livello di partecipazione al voto comunale così basso, sotto la metà degli aventi diritto, è doveroso chiedersi il perché di un tale tracollo della fiducia proprio verso l’istituzione più vicina.
Per quanto riguarda Pisa, che sarà chiamata al voto amministrativo nella primavera del 2023, il tema è quello della costruzione di una coalizione di centrosinistra larga e forte sul piano del programma e del candidato sindaco, in grado di rappresentare una alternativa vincente all’attuale maggioranza che governa il Comune. A tal proposito credo che i tempi siano molto corti. Non si costruisce una proposta credibile in pochi mesi. Il tempo è ora, se si vuole mettere in campo e attivare idee e energie per ribaltare la situazione politica attuale. Per questo nei giorni scorsi ho risposto alle domande del Tirreno (trovate il pezzo anche in allegato) indicandola necessità di dare una scossa al confronto stagnante nel centrosinistra pisano. L’ho fatto mettendo al centro la ricerca di una novità, anche attraverso la possibile candidatura di una donna alla guida della città, perché sono convinto che nel mondo della sinistra, in una larga parte di elettorato che si è allontanata, delusa e disaffezionata dalla politica e dal voto, vi sia una richiesta di novità, di cambiamento. Vi era anche cinque anni fa, ma non si colsero gli umori, locali e generali, e si preferì una scelta di continuità che portò alla sconfitta. Oggi dobbiamo misurarci con un contesto diverso, ma non meno difficile, e tutte le forze che si ritengono partecipi di un campo progressista alternativo alla destra, hanno il compito e la responsabilità di dire qualcosa alla città e di mettersi al lavoro per costruire insieme una valida proposta per il futuro di Pisa.