Paolo Fontanelli, responsabile enti locali del Partito democratico, boccia il Piano casa e prevede un nuovo, lacerante conflitto tra Stato e Regioni.
Quella del Pd non è un'ostilità preconcetta? A molti cittadini l'idea piace…
«Si tratta di una manovra propagandistica, che contiene forti rischi, anche se risponde ad alcune esigenze reali. Di certo, non risponde ai problemi veri della crisi».
Per quali ragioni?
«Non aiuta le tante famiglie che non hanno la casa e hanno invece il problema degli affitti. Bisogna pensare ai precari che perdono il lavoro invece di preoccuparsi di chi la casa ce l'ha».
Eppure, tanti piccoli proprietari guardano con interesse al Piano casa.
«Si ripete lo stesso film visto con l'abolizione dell'Ici. Con il governo Prodi i redditi bassi avevano ottenuto l'esenzione, Berlusconi ha premiato i redditi più alti. La possibilità di ampliamento riguarda ville e villette dove si possono fare incrementi di volume, più difficile farlo nelle case popolari. Chi non ha i soldi per arrivare alla fine del mese non pensa certo alla stanza in più. In ogni caso, nel provvedimento ci potranno essere anche parti interessanti, riguardanti la ricostruzione di edifici con tipologie a risparmio energetico e con la bioedilizia. Questo capitolo si collocherebbe dentro un filone nuovo capace di sviluppare investimenti virtuosi».
Non crede che serva a far ripartire l'edilizia?
«L'edilizia è ferma perché le banche non fanno credito. Il problema vero non sono le autorizzazioni, ma la mancanza di liquidità per chi costruisce. Se il governo rivedesse i vincoli del patto di stabilità interno, per gli enti locali si sbloccherebbero investimenti enormi. Si stima che ci siano 30 miliardi di residui passivi nei lavori pubblici che potrebbero essere sbloccati».
Ammetterà che non è facile dire di no al Piano?
«Intanto vediamo il testo che sarà approvato dal governo. La prossima settimana ci sarà un incontro con le Regioni, molte delle quali, tra cui la Lombardia, hanno espresso critiche e riserve. Di certo, si aprono nuove contraddizioni, visto che l'Italia ha il più alto indice di consumo di territorio per abitante. Il piano collide poi con le competenze che la Costituzione attribuisce alle Regioni: si profila un nuovo conflitto che non aiuta nessuno. Per la Toscana, poi, è un piano che non porta niente di buono. Abbiamo già norme regionali che permettono di rispondere, in un quadro di regole, all'esigenza di chi ha bisogno di ampliare la casa. Da una parte fanno i federalisti e dall'altra fanno i centralisti».
A proposito di federalismo, il Pd strizza l'occhio alla Lega?
«Il ddl sul federalismo fiscale è diventato un qualcosa di molto lontano da quanto il centrodestra aveva proposto in campagna elettorale: in pratica è l'applicazione del titolo quinto che il precedente governo Berlusconi osteggiò strenuamente. Con il confronto e gli emendamenti adesso è un testo diverso che ha arginato e eliminato i principali rischi dell'idea leghista che voleva territorializzare le imposte e affermare l'egoismo fiscale. Il testo attuale mantiene la solidarietà e la tenuta nazionale tra le Regioni. Certo, si è voluto fare un percorso alla rovescia, prima bisognava parlare delle funzioni e delle competenze e poi della fiscalità, ma alla Lega interessava far rimanere tutte le risorse sui rispettivi territori».
C'è il problema di incidere sui costi della politica. Quando arriverà un segnale forte?
«E' indispensabile rispettare l'impegno di ridurre i consiglieri regionali. Ho apprezzato l'intervento sul Tirreno di Martini: spetta al consiglio trovare il modo, ma se non lo farà, sarà la giunta a pensarci. Forza Italia dice che questo sarebbe un atto improprio, ma non so con quale coerenza si possa dir ciò, visto che Berlusconi procede a colpi di decreti legge e ricorre alla fiducia in maniera sistematica. Non vedo dove sia lo scandalo: se il consiglio non riesce a ridurre in qualche modo il numero dei consiglieri, è giusto che sia il presidente a prendere l'iniziativa. Se così sarà, il nostro appoggio sarà totale».
Carlo Bartoli