Mentre facciamo i conti, con grande preoccupazione, con la guerra in Ucraina, che non si ferma, e con i suoi effetti pesanti sull’economia mondiale e sullo stato dell’ambiente, già duramente alterato dalla crisi climatica, in Italia è iniziata l’esperienza di un governo di destra guidato da Giorgia Meloni. E, ovviamente, le scelte politiche fatte finora indicano un disegno di cambiamento per l’Italia fortemente caratterizzato da indirizzi chiaramente di destra. I primi atti rispondono ad una certa domanda di ordine, puntando alla riduzione degli spazi di partecipazione e al rilancio dei sentimenti e delle azioni ostili agli immigrati; si propongono di rassicurare i settori economici che si basano sull’evasione fiscale e i grandi poteri finanziari; si muovono nella direzione di pericolose riforme costituzionali. La cosa certamente più preoccupante è l’autonomia differenziata delle Regioni, che rende possibile la distruzione di valori fondamentali come il diritto alla salute o all’istruzione attraverso lo spezzettamento e la frammentazione regionale. Cioè si minano alla base le condizioni primarie dell’unità e della solidarietà nazionale.
Inutile meravigliarsi, era chiaro già nella campagna elettorale un possibile esito come quello che viviamo, con una larghissima maggioranza parlamentare che lascia ben poco spazio all’iniziativa delle opposizioni. E serve a poco concentrarsi sulle differenze fra la Meloni e Salvini con la domanda su quanto durerà questo Governo. Io direi meglio che duri un po’ perché se si va a nuove elezioni anticipate la destra cresce ancora. Ma il problema più grosso di questa fase mi pare sia quello della totale assenza, nelle forze di minoranza, di un minimo di azione volta a costruire una opposizione efficace e visibile alle scelte del Governo. Anzi, le minoranze sembrano più impegnate nel farsi la guerra fra loro che non verso la maggioranza, con effetti assai negativi come, per esempio, quello del disfacimento dell’alleanza progressista che ha governato fino ad oggi la Regione Lazio, chiamata al voto tra pochi mesi. In questo caso le responsabilità di Conte e del M5S sono evidenti e gravi, quasi al pari di quelle di Enrico Letta quando ha rotto con Conte sul voto di sfiducia al Governo Draghi. Certo la decisione del PD in quel caso ha consegnato alla destra la possibilità di vincere le politiche a mani basse, ma non si capisce perché si voglia ripetere la stessa cosa da parte del M5S, con ripercussioni nocive sulla costruzione di alleanze locali nei comuni che andranno al voto nella prossima primavera.
Tuttavia in questo quadro l’aspetto più problematico è quello che riguarda il PD. E vorrei dire anche la sinistra fuori dal PD, perché come abbiamo visto nei risultati elettorali non ha trovato alcun giovamento dal malessere che ha attraversato molto elettori del PD e che si è incanalato massicciamente nell’astensione. Ciò significa che l’offerta politica di sinistra presente nelle elezioni non è stata in grado di intercettare la domanda e la speranza per una sinistra capace di governare per cambiare il Paese. Ma torniamo al problema centrale, che è il PD. Dopo il voto il segretario Letta ha proposto un percorso congressuale per arrivare alla elezione di un nuovo segretario e alla definizione, così ha detto, di un “nuovo PD”, acquisendo in qualche modo la consapevolezza che il partito vive una fase di declino. Il cammino dovrebbe essere quello di un processo costituente aperto alla partecipazione dei soggetti politici che hanno fatto parte dell’alleanza elettorale e anche a singole persone che scelgono di aderire al percorso, che prevede un confronto di tipo congressuale con lo sbocco nelle primarie ai gazebo fra i primi due candidati alla segreteria che saranno decisi dal voto nei congressi. Non tutto però è chiaro e ben definito. Sono previsti ancora nuovi momenti di discussione negli organi del PD prima dell’avvio del percorso. Vedremo, e ciascuno valuterà se si tratta di una occasione utile o meno a rilanciare la sinistra.
Comunque il tema principale da cui partire è proprio il rischio di un declino irreversibile del PD così com’è adesso, segnato dalla perdita di capacità di attrazione e di credibilità messa in evidenza dai risultati elettorali. Che significa mettere in discussione seriamente le pratiche correntizie e le logiche della personalizzazione, per affrontare il problema dell’identità, di chi si vuole rappresentare e in base a quali valori si intende caratterizzare la rappresentanza sociale e territoriale del partito. Si tratta, insomma, di “rifare” il PD, sul piano della cultura e delle modalità organizzative, e anche muovendo dall’esigenza di rinnovamento dei gruppi dirigenti. Tutto ciò, a mio parere, è possibile solo se da quel percorso esce davvero un “nuovo PD”, nella sostanza e nell’immagine, altrimenti è molto difficile pensare di arginare il declino. Ma finora si intravede ben poco che corrisponda a questa esigenza.