Stiamo attraversando un momento difficile, in Italia e nel mondo, e le questioni che abbiamo davanti, con gli appositi interrogativi che propongono, sono assai complicate e talvolta indigeribili. Penso al fatto che mentre noi stiamo facendo i conti con il coronavirus, che sta allargando il suo campo di espansione in molti altri Paesi e diventa motivo di preoccupazione a livello mondiale, il fenomeno della migrazione dalle aree di guerra siriane e orientali, finora contenuto dalla Turchia, sta assumendo dimensioni e caratteristiche davvero inaccettabili. Il dittatore Erdogan utilizza i profughi e le loro drammatiche condizioni di vita per la sua politica di aggressione e per ricattare l’Europa. La Grecia reagisce con la chiusura spalleggiata da Bruxelles e tutto diventa una questione di soldi e non di umanità e di rispetto della dignità e dei diritti dei rifugiati. Quello che vediamo è uno spettacolo indecente, offensivo, per i valori di libertà e di solidarietà a cui si è ispirata la ragione fondativa dell’Unione Europea, ma l’importante, questa è l’impressione, è non turbare troppo gli assetti finanziari, economici e politici, che regolano la coesistenza nelle istituzioni europee.
Una riflessione simile possiamo farla anche sul tema della crisi climatica: a parole tutti si dicono estremamente preoccupati di ciò che può avvenire nel giro di pochi decenni se non si arresta il riscaldamento del pianeta e, quindi, se non si abbattono sensibilmente i fattori inquinanti che lo stanno modificando. Però quando si deve passare ai fatti ben poco si vede e gli interrogativi restano senza risposte. In fondo passa l’idea che basta fare qualche correzione sul piano delle emissioni e lo sviluppo economico e sociale andrà avanti più o meno come adesso. Anche sulla crescita evidente e indiscutibile delle diseguaglianze, che si è consolidata negli ultimi decenni in tutti i Paesi sviluppati del mondo, vengono spese parole di preoccupazione anche dagli oracoli del capitalismo, ma un attimo dopo si ripropongono le stesse ricette di sempre; quelle appunto che allargano a dismisura diseguaglianze e ingiustizie sociali.
Ora siamo alle prese con un nuovo virus che può diventare pandemia, che spaventa, minaccia la salute e crea allarme e problemi seri al sistema economico; e ci dice che ormai siamo tutti, e in tutto, legati ai processi di globalizzazione in un mondo sempre più piccolo e interdipendente. Credo che siano giuste le misure prese dal Governo per contenere e rallentare il rischio dell’espansione del contagio. Contengono soprattutto un richiamo alla responsabilità collettiva e individuale, che è la condizione primaria per contrastare il Coronavirus, ma che dovrebbe portare anche ad una riflessione sul modello di vita e di sviluppo che dovremmo perseguire per essere meno vulnerabili di fronte a fenomeni di questo tipo, a partire dalla tutela della salute e dall’emergenza economica. Eppure quello che si chiede, che si evoca, è di ritornare il prima possibile nella situazione precedente all’allarme, alla “normalità”. Del tutto comprensibile, ovviamente, ma non viene mai il dubbio che qualcosa cambierà comunque, o che sarebbe bene prendere l’occasione proprio per cambiare in meglio, in modo più sostenibile, gli equilibri del pianeta e le condizioni dell’esistenza delle persone?
Ecco, messi in fila tutti questi interrogativi, viene da chiedersi dov’è un luogo, o i luoghi, in cui sia possibile ragionare sulle risposte a queste domande?