Mentre siamo ancora in una situazione critica sulla pandemia, nonostante i segnali positivi sul rallentamento del contagio, e la raccomandazione è quella di non abbassare la guardia sulle misure di distanziamento sociale e di massima cautela nei comportamenti, che si dice avranno il supporto della distribuzione di massa delle mascherine, si va sviluppando la discussione sul dopo, sulla “ripartenza”. È indubbiamente giusto iniziare a parlarne, anche perché gli interrogativi su cosa accadrà sono davvero tanti. Ci sono quelli più pesanti che riguardano le origini del e dei virus, in che misura sono o possono essere il frutto di un modello di sviluppo distorto che altera la natura e la vita sul pianeta. Lo scrittore Sandro Veronesi ha paradossalmente detto che “il virus siamo noi, l’uomo che piega la natura e ne abusa”, e c’è chi sostiene che tutto questo è collegato in una certa misura anche con il fenomeno del riscaldamento globale.
Strettamente connessi a questi interrogativi vengono subito dopo quelli che riguardano il modo di vivere, le abitudini, lo stile di vita, e quindi l’economia, la produzione e i consumi dei Paesi più sviluppati. Un modello di sviluppo basato sul consumo di risorse e di beni comuni che negli ultimi decenni ha accentuati squilibri sociali e territoriali e allargato la forbice delle diseguaglianze. Poi ci sono gli interrogativi sui tempi, sulla gradualità della ripresa delle varie attività, sulla necessità di mantenere forme precauzionali e protettive per lungo tempo; almeno fino a quando sarà operativo ed efficace un vaccino anti covid-19, ed è evidente che ciò cambierà molte cose in relazione ai modi di vita e alle abitudini precedenti, nel lavoro, nella socialità e nella mobilità delle persone. È proprio sul come e in quale direzione andrà questo mutamento che si giocherà la qualità del nostro futuro, e con esso anche le prospettive dell’assetto democratico.
In questo quadro proporre un ragionamento fondato sulla ripresa come ritorno alla normalità, inteso come recupero e rilancio della situazione precedente alla crisi coronavirus, mi sembra illusorio e sbagliato. Anzi, ambiguo e pericoloso perché in realtà mira a salvaguardare innanzitutto gli interessi dei settori più forti e ricchi della società, a cominciare da quello della finanza, e ignora totalmente il tema della tutela sul piano ambientale e sociale. Per fare un esempio e non essere frainteso penso che sia giusta e necessaria l’iniziativa del Governo e dello Stato a sostegno delle imprese, con l’obbiettivo di rilanciare al più presto la capacità produttiva del Paese e con essa la ripresa dei consumi, favorendo un massiccio rilancio degli investimenti. Ma il problema è su quali linee di intervento, con quale tipo di progetto; per riqualificare la competitività del sistema a partire da sanità, scuola, formazione, ricerca, innovazione tecnologica, sicurezza ambientale, oppure puntando quasi esclusivamente sulle opere infrastrutturali pensate nel vecchio modello di sviluppo? Ha senso continuare a fare tante strade per le auto quando si può ridurre il traffico da pendolarismo con il lavoro da casa? Ha senso fare nuovi aeroporti adesso, quando è immaginabile un calo sensibile del movimento passeggeri e comunque, in ordine al problema delle emissioni inquinanti, sarebbe auspicabile un contenimento quantitativo del traffico aereo?
Sono solo esempi di un ragionamento che dovrebbe consigliare su larga scala una attenta verifica sull’utilità e sulla congruità economica e sociale delle opere pensate e progettate negli anni passati. In tale contesto stupisce per miopia, politica e amministrativa, la decisione della Giunta regionale della Toscana di rimettere al primo posto una nuova procedura per la realizzazione della pista parallela di Peretola, peraltro senza manifestare un minimo di attenzione per le problematiche di salvaguardia dell’ambiente evidenziate dalla valutazione di impatto ambientale e confermate dal TAR e dal Consiglio di Stato.
Nessun Commento